Marina Abramović e le sue performance: uno strumento per esprimersi e sconvolgere
Di fronte ai nostri occhi si apre un orribile scenario di distruzione e miseria che inevitabilmente ci coinvolge, ma da queste ombre si accende un pallido barlume di speranza o almeno così vuole essere. Come un piccolo salvagente a cui appoggiarsi per non scendere nell’abisso più profondo, questa luce ci spinge all’azione così da non lasciarci impassibili ad osservare l’annullamento del popolo ucraino, della loro essenza, della loro identità.
Si apre il sipario, per la seconda volta, della performance “The Artist is Present” di Marina Abramović, un’esperienza artistica che sconvolse il mondo nel 2010, all’interno del Moma.
La performer di origini serbe, per otto ore al giorno dei tre mesi a seguire, sceglierà di restare seduta in silenzio al centro di una sala e di lasciare che i visitatori si siedano di fronte a lei, per un tempo senza tempo: uno spettacolo che non ha spettatori, ma chiunque è parte integrante della performance.
Marina si raccoglie in un assordante silenzio, come se nulla di ciò che le si ponesse davanti agli occhi potesse sfiorarla, fino al momento in cui il suo sguardo incontra quello di Ulay, suo partner sentimentale e professionale, che non vedeva da oltre vent’anni.
L’atto contestualizza un momento di massima espressione emotiva: la bellezza e l’emozione di quegli istanti si svela ad ogni spettatore che ne rimane estasiato.
Oggi dopo oltre dieci anni, Marina Abramović sceglie di riportare alla luce la sua performance, mettendo all’asta, conclusasi il 25 marzo, i due posti disponibili per un confronto personale con lei stessa, partendo da una base di 16.000 dollari, devoluti in un secondo momento a Direct Relief, un’associazione a sostegno del popolo ucraino.
La performer si sente coinvolta in prima persona nella tragedia che vede coinvolta l’Ucraina in queste ultime settimane, poiché il suo lavoro di performer si è proprio svolto in quella regione, con un’installazione permanente che prende il nome di “The Crystal Wall of Crying”. Si tratta di una riflessione dell’Abramović sulla tragedia di Babyn Yar e l’olocausto, che vuole sottolineare il mostruoso impatto dell’omicidio di massa sulla memoria collettiva ed il potenziale curativo di una riflessione mirata, che questo processo può avere sulle generazioni future. L’installazione consiste in un muro di antracite con incastonati cristalli di quarzo, che vanno a creare uno spazio speciale, dove ognuno può pensare e riflettere sui tragici eventi del passato per ricavarne conclusioni personali per cerca di lenire le ferite più profonde del nostro essere.
La permanenza in Ucraina per la realizzazione dell’installazione, le permette di instaurare una connessione con la popolazione locale, portandola ad oggi ad urlare ad alta voce che questo incomprensibile attacco non è rivolto solo al popolo ucraino, ma a tutti noi. Queste sono le ragioni per le quali sente di non poter restare ferma a guardare, ma sceglie di agire e di usare il proprio lavoro per aiutare l’Ucraina.
Sicuramente non è la prima volta che Marina Abramović sceglie di rivolgere il suo sguardo alla guerra e di usare la propria espressione artistica come strumento per suscitare stupore e sconvolgere i suoi spettatori, come nel caso di “Balkan Baroque”. Presentata alla Biennale di Venezia, con la quale vinse il Leone d’oro, questa performance vede Marina seduta su un cumulo di ossa insanguinate, intenta a pulirle ripetutamente per giorni, sia dal sangue che dai vermi, cantando lamenti. L’opera voleva essere un chiaro messaggio per gli orrori visti durante la guerra dei Balcani che si stava svolgendo in quegli anni, sempre con l’intento di sconvolgere chiunque si fermasse a guardare immedesimandosi in lei. L’obiettivo era chiaro, suscitare in ogni spettatore il disgusto per ciò che stava guardando ed ancora una volta spingerlo ad agire.
Si svela così, chiaro e limpido, l’intento ultimo di Marina Abramović: indagare l’Io più profondo, capire come il corpo sia il migliore strumento di veicolazione dei messaggi e di come esso si possa spingere al limite della propria resistenza, così da sprigionarne il massimo potenziale espressivo. Marina vuole infatti, colpire il cuore dei fruitori e risvegliare dal torpore chiunque pone il proprio sguardo su di lei.
In molte occasioni, ha spinto sé stessa oltre i limiti della sopportazione e della sofferenza, con la speranza di suscitare nel suo pubblico una reazione e spingerli al gesto, così da intervenire durante il suo “spettacolo”.
Una delle primissime performance in cui lo spettatore diventa parte integrante dell’esibizione si chiama “Rhythm 0”: Marina, in piedi al centro di una stanza in cui erano presenti molti oggetti, rimane per sei ore immobile, proprio come uno di essi; le persone presenti potevano prendere uno qualsiasi degli oggetti messi a loro disposizione e fare di lei ciò che volevano. Lo scopo voleva essere quello di rivelare la vera essenza del performer, fino a quel momento considerato un mero esibizionista e masochista.
“Lips of Thomas” si tratta invece di una performance in cui il pubblico non era parte integrante dell’esibizione, ma lo diventerà, in quanto sarà proprio esso stesso ad intervenire e a salvare Marina. Siamo di fronte all’opera più violenta e straziante messa in scena dalla performer, in quanto l’artista nuda si incide attorno all’ombelico, e si flagella ponendosi sopra a dei blocchi di ghiaccio; dopo poco gli spettatori, non potendo più restare inermi a guardarla soffrire, intervengono sottraendola da quel supplizio. L’obbiettivo della tensione emotiva nei confronti del pubblico voleva essere una provocazione a suscitare una reazione ed una partecipazione al suo atto performativo.
Solamente svelando alcuni dei lavori dell’Abramović si può capire come oggi, più che mai, sia un’artista attuale e contemporanea, di come con il passare del tempo sia stata capace di infondere in ognuno di noi la sua visione del mondo, di come il corpo sia lo strumento migliore per esprimere sé stessi e le proprie visioni, ma soprattutto ci ha rivelato come la performance sia una forma di espressione, uno strumento indispensabile per aprire gli occhi al mondo. Lo spettatore diventa parte dell’azione e l’opera non è più solo una bellezza da osservare, ma qualcosa da vivere e in cui sentirsi integrato; la performance si vive lì ed in quel momento, come qualcosa di effimero ed inconsistente che poi scompare, lasciandoci però un chiaro ricordo impresso nella mente.
Marchi Andrea