Chiacchierata informale con Alessandro Biasi, dall’inizio di A-LAB MILANO fino all’ingresso nella Fashion Week.
AM: Come stai?
AB: Agitato (sorride).
Sono seduto davanti alla scrivania di un sorridente Alessandro Biasi, fondatore e direttore creativo del brand A-LAB MILANO. Un ambiente essenziale ma accogliente, aperto. Il laboratorio creativo che Alessandro ha progettato da quando andava in accademia. Qui, dal 2009, A-LAB MILANO propone un concetto moda super innovativo, utilizzando tecniche e metodi all’avanguardia, ma soprattutto inserendo nello scenario della moda italiana il concetto di collettivo creativo.
AM: Partiamo dal principio. All’inizio della tua carriera professionale, c’è un’esperienza molto importante legata al mondo del teatro, in cui hai fatto da assistente costumista a Jacques Reynaud.
Come ti sei avvicinato al teatro e come è avvenuto il passaggio da questo al mondo della moda?
AB: Lungo tutto il mio percorso di studi in NABA, sono sempre stato affascinato dalla teatralità della moda. Le sfilate di Alexander McQueen e John Galliano, che per me sono due grandi maestri, erano vere e proprie performance teatrali.
L’esperienza con Jacques Reynaud è stata molto interessante. Mi ha affascinato molto la gerarchia e il rigore che vigono nel mondo del teatro più tradizionale, totalmente diverso dal mondo della moda, dove tutto è molto più immediato. In comune c’è l’enorme preparazione prima dello show: il lavoro dietro alla performance è duro e minuzioso, e non sempre il pubblico ne è consapevole.
Il teatro mi appartiene, e che io voglia o no, si insinua sempre nei miei lavori.
AM: Hai citato prima la NABA. Hai scritto una tesi di laurea sul concetto di collettivo creativo, che è diventato poi A-LAB MILANO, ispirato alla Factory di Andy Warhol, in cui analizzavi l’idea di collettività, co-working, di fucina creativa.
Perché sei così legato a quest’idea e cosa rappresenta per te?
AB: Credo tantissimo nella contaminazione e nello scambio energetico della creatività.
Ho appreso da questa esperienza che in Italia è ancora molto difficile trasmettere il concetto di gruppo creativo: all’inizio eravamo un collettivo di dieci persone e la domanda che più mi ponevano era “Si ok, ma chi l’ha disegnato?”. Il bello stava sì nel risultato, ma soprattutto nel processo creativo, che era fresco e innovativo. In altri settori, come nell’arte o nel design, il concetto di team working era più comprensibile, ma nel fashion business, ancora si fa fatica. A volte, nella moda, si vuole raccontare una condivisione e contaminazione che non sempre è spontanea. Il co-working è una risorsa importante che diventa fonte di energia, di ispirazione e perché no, anche sana competizione.
Già dalle prime collezioni di A-LAB MILANO, dove la A sta per Alessandro, emergono le sue ottime capacità e l’inclinazione al lavoro di gruppo, dalla progettazione all’esecuzione, nel rispetto e nella valorizzazione delle idee dei singoli componenti del gruppo di lavoro.
AM: Siamo entrati nel discorso panorama italiano. A-LAB MILANO è un marchio che produce interamente in Italia. In uno scenario dove le realtà moda che producono nelle aziende artigianali italiani sono sempre meno, quale pensi che sia il destino del Made in Italy?
AB: La capacità degli italiani di saper fare è un’istituzione riconosciuta in tutto il mondo, in cui io credo tantissimo. Una volta il Made in Italy era sinonimo di qualità, artigianalità e unicità del prodotto; adesso è rimasto soltanto il concetto, l’etichetta. Il Made in Italy è quel valore aggiunto che racchiude tutti gli elementi che ho citato prima, o che per lo meno li ricordi. Perciò diversi gruppi imprenditoriali decidono di produrre in Italia, e tante volte le stesse realtà italiane, decidono di produrre all’estero per poter rimanere competitivi. Il grande compromesso è scegliere di continuare a produrre in Italia, ma avere un margine di guadagno più basso.
Il concetto di “nuova sartorialità” è il punto di forza di A-LAB MILANO. Alessandro Biasi ha scelto per il suo brand una produzione interamente italiana, un concentrandosi sulla tradizione e sull’indagine su volumi, silhouette, materiali e tecniche di stampa contemporanei, rispondendo ad elevatissimi standard qualitativi.
AM: Quindi, secondo te, in uno scenario fatto di influencer e fashion blogger, nate per prevedere le tendenze ed esserne portavoci, l’esclusività è ormai un elemento così ricercato?
AB: No, infatti. Viviamo in un mondo che corre verso l’omologazione. Sembra catastrofico, ma penso sia così. I social e il fast fashion sono potenze molto democratiche, poiché sono accessibili più o meno da tutti, il che crea meno distinzioni possibile. Un sistema che mette il pubblico sullo stesso piano, ma che fa male alla creatività, che propone qualcosa di diverso e sconosciuto. All’ultima edizione di Artissima a Torino, per il progetto Dreamers, A-LAB MILANO ha presentato la tuta come abito del futuro, perché, secondo me, è un perfetto esempio di capo d’abbigliamento che non crea distinzioni tra chi la indossa; è come una divisa. Un domani non avremo neanche più bisogno degli abiti, ma solo di tante divise.
AM: Il futuro è una grande ispirazione per te. Un pilastro del collettivo A-LAB MILANO è la stampa digitale, la tua solida passione per tutto ciò che è innovativo. D’altro canto, sei un sostenitore e amatore del disegno a mano libera, di cui non riesci a farne a meno. Quel è, per te, il rapporto che c’è tra queste due modalità e come avviene il passaggio dall’una all’altra?
AB: Io sono un grande sostenitore della tradizione e dell’innovazione. Non mi vedo davanti ad un bivio e dover scegliere quale strada prendere. Sono due modalità che devono coesistere. La tecnologia e l’innovazione non possono farci allontanare dalla tradizione, anzi, devono assimilare da essa i concetti e contestualizzarli nel presente. La stampa digitale, a differenza di quella tradizionale, rende liberi perché non ha limiti. Esattamente come, in modo diverso, lo fa il disegno a mano libera. Quest’ultimo però evoca un movimento primitivo, legato alla nostra infanzia, ed è per noi più intimo, più sacro. La tecnologia deve servire a comunicare questa spontaneità e non a sostituirla. Abbiamo bisogno di percezioni meno artefatte e più naturali. E questo è il concetto che ho voluto infondere nella collezione Primavera-Estate 2018: le stampe sono digitali, ma nascono dal gesto istintivo dello schizzo a mano libera o della macchia casuale d’inchiostro. Quell’intimità, quella naturalezza è stata tradotta dal digitale. Ho voluto trasmettere questo concetto di “ritorno al passato” anche attraverso l’uso dei colori primari, così evidenti sul fondo bianco. Inoltre, le foto, lo styling è volutamente spontaneo: voglio evitare la finzione, preferisco mantenere la coscienza salda e non dimenticarmi chi sono.
Ad interpretare la collazione è Valentina Siragusa, famosa influencer, ma soprattutto, grande amica di Alessandro. Egli stesso racconta del loro legame e delle loro collaborazioni, che non hanno nulla a che vedere con scelte di marketing o di promozione, ma solo sincera e spontanea amicizia. Entrambi condividono le stesse passioni, ma le esprimono in maniera diversa.
AM: Questo forse è il motivo per cui non hai mai abbandonato l’ambiente accademico. Insegni stampa digitale agli studenti della NABA di Milano, luogo, quest’ultimo, che vede nascere ogni anno decine di scuole di moda. Cosa ne pensi del tipo di formazione delle fashion school italiane e quale consiglio daresti ai giovani aspiranti designer?
AB: Che domanda difficile! (dice sorridendo)
Fino a qualche anno fa c’era una netta differenza tra l’essere shopaholic e studiare moda. Ora i designer sono trendsetter e i fashion victim sono anche consulenti d’immagine. Insomma, c’è un po’ di confusione. Io mi sento di appartenere a quella generazione legata al sogno, al percorso da fare per raggiungere l’obiettivo. Quando ero studente, ero costretto a guardare altrove. Non c’erano i social e nemmeno gli smartphone, quindi per scoprire qualsiasi cosa bisognava fare lunghe ricerche che il più delle volte permettevano di scoprire novità sensazionali e appassionanti. Paradossalmente, in questo momento, avendo tutto il mondo a portata di un doppio click su Instagram, sembra quasi più difficile fare ricerca. Il bombardamento di informazioni e immagini rimane a un livello superficiale e purtroppo tante volte manca l’approfondimento. Il consiglio che voglio dare ai giovani studenti è quello di andare a fondo, trovare anche il più insignificante dettaglio, perché scoprirete che alla fine non è stato insignificante.
AM: Nella tua vita, hai incontrato diversi designer che hanno influito tantissimo nel tuo percorso. Mi dici la prima parola che ti viene in mente se te li cito?
AB: Neil Barrett: precisione;
Denis Simachev: eclettismo;
Thierry Mugler: prorompenza;
AM: Alessandro, ti ringrazio molto per la chiacchierata. Direi che possiamo…
AB:… mangiarci i pasticcini!
Alessandro Milzoni